La rabbia giovane: quando la scuola diventa territorio di eccessivo sconfinamento

La rabbia giovane: quando la scuola diventa territorio di eccessivo sconfinamento

Scrivo pur sapendo che sarebbe bene non farlo proprio per dare meno risonanza ai fatti che stanno accadendo negli ultimi periodi a scuola; intendo l’aggressività e lo sconfinamento che alcuni studenti agiscono nei confronti delle figure adulte deputate alla trasmissione di saperi: gli insegnanti. Scrivo pensando di tacere perché l’effetto mediatico di immagini, video e pensieri potrebbero amplificare possibili azioni soggette a quello strano meccanismo psicologico chiamato “effetto emulazione, effetto Wherter”.

L’effetto Werther pone al centro dei suoi studi i suicidi e l’immediata notizia riportata dai mezzi di comunicazione di massa nella società. La notizia pubblicata, postata, ridondantemente discussa può provocare a catena altri suicidi. Questa accade perché il potere dei mezzi di comunicazione di massa è incontrollato e facilmente penetrabile. “Negli ultimi anni l'autorevolezza degli stessi è cresciuta considerevolmente”  e  “le trasformazioni sociali lasciano l’individuo più in balia di influenze esterne". Lo stesso Karl Popper in Cattiva maestra televisione, studiando i contenuti dei programmi e gli effetti sugli spettatori televisivi, conclude che essa sia diventata ormai "un potere incontrollato, in grado di far penetrare nella società forti dosi di violenza.”

Le variabili che concorrono alla violenza in generale e nello specifico verso la figura adulta per mano di giovani adolescenti sono moltissime ma, a mio parere, un denominatore comune ce l’hanno: la difficoltà di comprendere e sostare nel proprio spazio, nei limiti dati e imposti da regole sociali e animali: il rispetto del territorio, dell’altro, dell’adulto e soprattutto di sé.

Spesso sento dire che “le generazioni si assomigliano”, che “una volta era uguale” ma a mio avviso dei cambiamenti ci sono e sono assolutamente evidenti: vent’anni fa non si sentiva parlare di docenti picchiati dai ragazzi soprattutto nei ceti sociali più poveri; vent’anni fa non c’erano dispositivi digitali ormai diventati estensione corporea necessaria per la sopravvivenza anche in classe. Come teorizza Recalcati, stiamo assistendo a un cambiamento antropologico dell’uomo.  

Dobbiamo però tornare un po’ indietro e riprendere in mano questioni economiche, in primis, perché lo sconfinamento ha come matrice primaria, a mio avviso, la globalizzazione, i mercati economici, il tanto osannato progresso tecnologico e la possibilità per i giovani e per gli adulti di figurarsi nel mondo pur essendo seduti sulla comoda poltrona di casa.


Assenza di confini

Queste riflessioni, bruscamente riassunte, sono state ben  raccontate da moltissimi sociologi e l’idea di fondo è che tali condizioni hanno nutrito un immaginario votato  all’assenza dei confini. Non a caso uno dei più grandi sociologi degli ultimi tempi, Baumann, parla proprio di società liquida. L’assenza di territorialità accade fuori dai corpi ma anche nel mondo interno, nei vissuti e nei comportamenti dell’uomo oggi. Spesso i genitori e i ragazzi mi raccontano scenari complessi di sperimentazione relazionale: ruoli invertiti, poca sperimentazione dei limiti, attenzione rivolta prevalentemente alla performance scolastica e/o sportiva, difficoltà nel condividere spazi e tempi di vita insieme, complicazioni ipertrofizzate nell’attraversare un conflitto, nel sostare nei “no”, che devono essere pochi, sani, motivati e mantenuti.

La seconda metà del ‘900 è stata fortemente caratterizzata dal conflitto, dalle lotte e da quello che viene spesso definito psicoanaliticamente “l’uccisione del padre” perché presente in ogni sua parte simbolica: limiti, rinunce, autorità, imposizioni. Questa dialettica, dentro e fuori casa, si manifestava in lotte intestine tra generazioni soprattutto in adolescenza e questo movimento concorreva a costruire una identità psichica ben delineata: si sapeva di essere figli, di essere padri, di essere madri ma soprattutto di trovare dentro le mura di casa tutti quegli aspetti di sperimentazione relazionale atti a costruire il sé.

I ragazzi conoscevano bene i no, i limiti, e imparavano a gestire la dimensione emozionale che si generava in quella relazione necessaria per crescere.

Sui banchi di scuola l’autorità era incarnata dai docenti e lo studente sapeva bene come interagire, ciò non escludeva la manifestazione del conflitto a scuola perché ci si auto-organizzava in maniera collettiva, tra compagni, in classe, tra studenti, nell’istituto, con le autogestioni e non le co-gestioni, con l’assenza dei genitori nei territori dei figli e con la sperimentazione dei ragazzi di figure adulte “altre”, diverse da quelle genitoriali.

Insomma, la scuola era un contenitore esperienziale di vita dove i ragazzi potevano esplorare diverse modalità di relazioni, forti del fatto che in casa, in famiglia e nella società erano ben chiari i ruoli sociali, i territori sconfinabili e quelli da rispettare.


Responsabilità e colpe

Oggi non è più così e pensare di ridurre le cause a un’unica variabile sarebbe uno sforzo poco onesto e rivolto prevalentemente alla caccia al “capro espiatorio”: colpa dei docenti, dei genitori, dei telefonini. Allora forse bisognerebbe iniziare a pensare a responsabilità più che a colpe, tenendo ben presente che la fatica nel mettere un limite è, da un lato, facilmente comprensibile perché si è inseriti in un contesto sociale liquido dove l’uomo è studiato dalle grandi oligarchie come consumatore più che come pensatore: “consumo dunque sono”; dall’altro doveroso, necessario per una costruzione identitaria sana, capace di gestire rabbie, frustrazioni e noia senza ledere l’altro.

liceo

Parlando di responsabilità, quella degli adulti, siano essi genitori, insegnanti, allenatori, educatori, psicoterapeuti, è inevitabile porre il limite, il confine entro il quale stare.

A scuola lo sconfinamento deve essere seguito da una conseguenza: “picchio un docente, la scuola mette in atto un provvedimento disciplinare, a casa trovo coerenza e un genitore che sostiene la posizione del corpo docenti.” Invece spesso a casa viene dato un messaggio diverso, protettivo, giustificante e a sua volta sconfinante: “vado io dai professori”, “non ti preoccupare ci pensa papà”. Perché?

 Perché un genitore si allea con il figlio?

Perché un genitore, figlio di una storia ben diversa, non riesce a entrare in conflitto con le azioni del proprio ragazzo? Probabilmente perché il non andare  a braccetto con i nostri bambini vorrebbe dire “devo litigare, mi tiene il muso, si arrabbia, mi sento in colpa, non so cosa fare” oppure “ho sbagliato qualcosa, non sono bravo, non sono capace”. Su quest’ultimo punto mi fermo dicendo: non dobbiamo essere bravi, non dobbiamo essere capaci. Fallire come genitori, come ragazzi, come uomini è in sé un’esclusività perché l’esperienza della “caduta” mette in movimento qualcosa di prezioso per l’uomo: l’emozionalità e il pensiero, la messa in discussione, la possibilità di entrare nel caos del conflitto interiore e di sapere di poter sopravvivere e vivere meglio.

È difficile potersi concedere un’esperienza così preziosa in una società che induce prepotentemente all’efficacia, alla performance e alle capacità e con una scuola che riproduce nel micro tutto questo: la scuola delle competenze, della tecnica, dell’efficienza, della performance.

L’educazione dei nostri figli e dell’uomo ai sentimenti, alle nostre zone d’ombra, permette di aprire un dialogo con un comportamento che può sì essere agito ma anche fermato prima, perché sento quella noia, quella frustrazione e so quali sono le conseguenze; non perché c’è una punizione ma perché capisco che ferisco, che faccio male, che mortifico. Ciò che sentiamo negli ultimi tempi nella relazione tra insegnanti e studenti è anche manifestazione di una rappresentazione della non educazione sin da piccoli alle emozioni, ai sentimenti, al bene e al male, che passa in primis dall’educazione primaria dei genitori nei primi anni di vita: ascoltare i bambini senza eccedere in egocentrismi, fare esperienza emozionale, fare sentire loro le emozioni che si provano, limitare e dire no sapendo che dietro un no c’è una coppia genitoriale “che tiene”  ed è presente.

Questi sono gli elementi indispensabili per strutturare un bambino e un giovane all’incontro e a volte all’impatto con il mondo esterno.

 

A cura di Francesca Vavassori, Psicologa
www.psicologovavassorimilano.it

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