Giocare in strada è un diritto
Gli adulti del Novecento erano diversi. Oltre a non vietare agli under 14 di tornare a casa da soli, non facevano i compiti con i bambini, spesso non li accompagnavano a scuola e soprattutto non organizzavano i loro giochi. Nel mio cortile, come in ogni cortile milanese, c’era una banda eterogenea di bambini di ogni età con i quali condividevo giochi, rivalità, segreti, scherzi, disastri, cicatrici, dispetti, merende e amicizie profonde.
Si imparava dai più grandi e si insegnava ai piccoli, affidati ai fratelli e alle sorelle maggiori e non ai nonni o alle tate. A sei anni si poteva già sentirsi dire: “Guai a te se non badi a tua sorella.” Per andare a giocare, bastava dire “vado giù” e quando si tornava a casa con le ginocchia sanguinanti, nessuno si stupiva.
Quando riguardo quel cortile della mia infanzia, oggi invaso dalle auto, penso che noi adulti abbiamo rubato la strada ai bambini e che dovremmo lamentarci di meno e impegnarci di più per restituire il maltolto.
Devono avere avuto lo stesso pensiero le due mamme inglesi che hanno fondato il network Playing Out, che fornisce supporto ai privati e alle amministrazioni pubbliche per organizzare occasionali chiusure di singole strade cittadine in modo che i bambini possano tutti scendere a giocare con gessi, corde, monopattini, biciclette e palloni.
Non si tratta di approfittare delle occasionali domeniche a piedi, la cui principale finalità è quella dell’educazione ambientale. Si tratta invece di mettere al centro e in primo piano il bisogno di libertà dei bambini e di riconoscere loro il diritto alla cultura orale dell’infanzia, che si crea e si trasmette solo se l’adulto è capace di offrire spazio e poi fare un passo indietro e togliersi dai piedi.
Di Federica Buglioni
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