Quando i neonati (e i genitori) non dormono

Quando i neonati (e i genitori) non dormono

La nascita di un figlio è un evento unico e straordinario. Accogliendo e dando il benvenuto a una nuova vita, marito e moglie, compagno e compagna diventano anche padre e madre: bisogna creare un nuovo spazio adesso, perché a tavola c’è un posto in più. Tale cambiamento comporta la fisiologica necessità di rivedere e riorganizzare gli equilibri fino ad allora consolidati: mamma e papà devono riconsiderare i rispettivi impegni lavorativi e la gestione del tempo libero, perché il piccolo ha bisogno della loro vicinanza e loro stessi sono desiderosi di stare con lui, di conoscerlo, di stupirsi e meravigliarsi per ogni piccola tappa evolutiva conquistata.  

Per questi motivi, l’arrivo di un figlio si caratterizza come un evento carico di emozioni, diverse e a volte contrastanti. Si possono provare infatti grande felicità e sorpresa, ma è possibile anche sentirsi impauriti.

Può spaventare l’impegno di trovare una nuova omeostasi familiare, ma soprattutto può spaventare il fatto di percepirsi impreparati rispetto al prendersi cura di una nuova vita: «Sarò in grado?», «Cosa mi sta chiedendo?», «Cosa e come devo fare?» possono essere le domande che talvolta si pongono i neogenitori, anche perché il piccolo, benché non sia ancora in grado di parlare, è già capace di comunicare attraverso sorrisi, vocalizzazioni, urla e pianti.

Quest’ultima modalità, in particolare, può risultare all’inizio difficile da interpretare per la mamma, essendo veicolo di messaggi di diversa natura. Il neonato, infatti, utilizza il pianto per esprimersi in molte situazioni, quali quella della fame, del dolore fisico, della frustrazione, della mancata familiarità con il contesto circostante e, infine, della stanchezza (e quindi del bisogno di riposarsi e dormire, a seguito di un’intensa stimolazione sensoriale) e dell’interruzione del sonno.

In riferimento a ciò, una delle paure principali dei neogenitori di oggi è proprio di non riuscire a dormire.

Tale timore è comprensibile, considerati i ritmi del ciclo sonno–veglia dei neonati, fisiologicamente differenti da quelli degli adulti, e la maggiore età, se comparata rispetto al passato, alla quale tendenzialmente si ha oggi un figlio. Bisogna tenere a mente, inoltre, che il periodo ospedaliero nel quale si realizza il parto, oltre a essere emozionante, è anche complesso e sicuramente molto faticoso per le neomamme.

Subito dopo il rientro a casa, perciò, una delle loro maggiori difficoltà consiste nella mancanza di riposo, che si somma alla drastica diminuzione delle ore di sonno caratteristica dei primi mesi di vita del piccolo. Può capitare, talvolta, che tutta questa stanchezza accumulata si traduca in una tensione, che può successivamente finire per permeare determinati momenti della giornata e della relazione, come quello del pasto o della buonanotte.

Il bambino non è mai un passivo ricettore di stimoli, neanche da neonato, e quindi non solo percepisce l’eventuale clima teso, ma viene anche influenzato da esso, manifestando poi il suo possibile disagio proprio attraverso le funzioni fisiologiche, primo canale di comunicazione. Può dunque avere maggiori difficoltà ad addormentarsi, o può svegliarsi con più frequenza durante la notte: un’eventualità è che si venga così a creare un circolo familiare di azione e reazione che aumenta la stanchezza di tutti i membri.

Benché non vi siano soluzioni generali e universalmente valide, in simili circostanze può essere utile fare appello a due principi. Innanzitutto, a quello della collaborazione, o della relazione in sé e per sé. Quest’ultima, infatti, è uno scambio tra due o più persone, che si vengono incontro e si danno una mano. In tal senso, la mamma e il papà possono aiutarsi e sostenersi vicendevolmente, ad esempio, alternando le volte in cui si svegliano e si alzano per tranquillizzare il piccolo che piange.

Il secondo principio a cui è possibile riferirsi è quello della differenziazione della risposta. In merito al sonno, prendendo nuovamente in considerazione il pianto, tale modalità di espressione non fa sempre e univocamente riferimento alla fame o al fastidio. A volte, infatti, il bambino desidera semplicemente del con-tatto: essere preso in braccio, cullato, coccolato, in poche parole sentirsi amato e riconosciuto. Per poter rispondere in maniera adeguata e variegata, è importante quindi avere la capacità di distinguere gli stimoli proposti dal figlio, una capacità che non è qualcosa di dato, ma che invece si costruisce nel tempo.

In conclusione, quindi, la paura di non riuscire più a dormire può essere percepita inconsapevolmente dal piccolo (che recepisce e reagisce alle eventuali tensioni che possono saturare il clima familiare) e consapevolmente dalla mamma, così come dal papà.


Con la crescita, poi, il bisogno di vicinanza e affetto può portare a condividere il lettone durante la notte. Potrebbe allora prendere piede una nuova paura: «Non riusciamo più a dormire… da soli!».

 

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